venerdì 7 gennaio 2011

Non ti calcolo

Grazie all'aiuto di un'amica ho recuperato questo vecchio racconto del maggio 2004. Mi ha fatto simpatia e tenerezza rileggerlo. Lo ripropongo.


Giovanni prova a sdrammatizzare con qualche battuta delle sue, ma non sono in vena di assecondarlo.

Non ora Giovi, premi il piede su quel cazzo di acceleratore e sorpassa questo stronzo che altrimenti io qui tra un po’ mi strappo via il rene e lo butto fuori dal finestrino.

Ma non glielo dico.
Trovo invece la forza di pronunciare un pensiero un po’ buffo confezionato poco prima sul letto di casa tra un lamento e un’idea delirante: “Ragà, non so come si sentano le donne quando partoriscono ma io mi sento come se stessi partorendo…”.
Sorride. Sorride anche Alessia che dal momento in cui sono entrato in macchina mi tiene una mano sul ginocchio per tranquillizzarmi, ma io in realtà sto già seguendo il mio rene volare via dalla macchina in corsa e infrangersi sull’asfalto un attimo prima di infilarsi sotto una ruota della macchina che ci segue.
Un moto di ribrezzo mi fa rigirare sul sedile.
Mi porto istintivamente la mano sul fianco destro. Tutto apposto. Ci sei ancora. Sei un fottuto rene da quattro soldi ma ci sei ancora, per fortuna.
La macchina inchioda, sento le portiere anteriori aprirsi simultaneamente con Giovi e Ale che schizzano fuori come poliziotti di telefilm americani. Pronto soccorso. Siamo arrivati.
Alessia recupera facilmente una carrozzella. Mi viene incontro.
“No grazie Ale, ce la faccio a camminare”. Tutina blu aderente, mantello rosso, una S sul petto e m’incammino verso l’entrata di quella che ora vedo come la sola oasi di salvezza.
La sala d’aspetto è piena di gente, per lo più mamme che chiacchierano e bambini che giocano allegramente.
Alessia bussa ripetutamente contro una vetrata. Dopo quattro- cinque infiniti minuti si apre una porta nella quale m’infilo senza chiedere permessi e autorizzazioni mentre sento una voce di donna dietro di me che prende a sbraitare contro l’infermiere: “Ehi ma sono già tre persone che mi passano davanti!”.


Sta zitta vecchia baconca che se potessi urlare tutto il dolore che provo adesso non riusciresti a starmi a venti metri di distanza senza subire danni irreversibili ai timpani e allora sì, che avresti davvero bisogno di un pronto soccorso.


Mi butto sul primo lettino che trovo e quasi istintivamente tendo il braccio nella speranzosa attesa che qualcuno si precipiti ad iniettarmi un sedativo in vena, ma vedo le mie più rosee aspettative da puntata numero ventiquattro di E.R. “Medici in prima linea” dissolversi nel riconoscimento di una voce, quella di Paolo, un medico che conosco.
Si avvicina al mio lettino con la sua proverbiale flemma.
Mi riconosce.
Mi chiama per nome.
Mi saluta.
“E tu che ci fai qui?”.


Niente, sai ero da queste parti e ho pensato di passare a salutarti, poi ho visto questo bellissimo lettino e ho voluto provare l’ebbrezza di sdraiarmi in un pronto soccorso. Il braccio teso dici? No, io mi metto sempre così anche quando dormo, lo trovo comodissimo, dovresti provare.


E invece dico:
“Colica…calcoli…già successo un’altra volta…prego, medicina!”.
Si volta, dice qualcosa a un infermiere. Lo stesso che qualche attimo dopo viene a sistemare una bottiglia capovolta nel suo apposito sostegno e a infilarmi un ago nel braccio.
Vedo scendere le prime gocce di medicinale.

Dài goccioline belle sù, scendete veloci, venite da me, presto.

Scopro quasi subito che muovendo un po’ il braccio riesco ad aumentare il flusso, ma il dolore si attenua molto lentamente, troppo lentamente.
L’infermiere si siede dietro una scrivania a pochi passi da me. Telefona ad amici, parenti, non so. Ma di sicuro devono dirgli cose molto divertenti dato che non fa altro che ridere di gusto.
E’ l’unica persona nella stanza, provo anche un certo affetto nei suoi confronti per quanto fatto poc’anzi, ma non mi va’ di starlo a guardare, ne’ a sentire.


Nulla di personale eh, o mio salvatore, ma non mi va’ di stare a guardare e sentire persone che si divertono in questo momento.


Cerco di guardare altrove e di pensare ad altro, ma non devo impegnarmi molto perché mi arrivino stimoli distraenti.
Immediatamente, infatti, due vigili urbani entrano nella stanza mentre parlano, in maniera piuttosto concitata, con un altro infermiere.
Hanno portato un uomo ubriaco, polacco, pare in condizioni igieniche non proprio ottimali.
Tendo l’orecchio per capire meglio.
“Hai usato un fazzoletto per prendere i documenti sì?”.
“Certo! E tu mettiti i guanti se devi infilargli la flebo mi raccomando…”.
Che cari. Quante professionali precauzioni in quelle parole.
Non posso frenarmi dal dirgli qualcosa:
“Sì sì…bravi…mi raccomando”.
Ma mi rendo conto di non essere in grado di innescare polemiche e comunque non mi hanno nemmeno sentito.
Li vedo sparire nella stanza adiacente. Anche il “mio” infermiere si unisce all’allegra combriccola.

Ma sì, meglio così, sparite tutti.

Il dolore sta diminuendo.
Torna Paolo.
“Come va’?”.
“Benissimo Pa’”.
Non è esattamente la verità, il dolore non è scomparso del tutto, ma faccio di tutto per evitare il ricovero.
Mi consegna il foglio di dimissione.
Lo saluto.
Saluto la stanza.
Saluto la bottiglia che ora se ne sta in un cestino, vuota e orgogliosa del suo lavoro.
Saluto il lettino.
Guardo la porta della stanza adiacente e saluto il polacco. Pieno d’alcool e probabilmente poco orgoglioso di sé.
Penso alle persone che ora sono di là con lui.
Non le saluto.

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